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Data di pubblicazione:19/09/2006
Fonte:La Stampa
Titolo dell’articolo:Il buco Fs vale 1,6 miliardi. Crescono solo i posti da dirigente: più di 300 in cinque anni
Testo dell’articolo:ROMA - Oltre un miliardo e seicento milioni di euro. Il triplo della cifra che circolava fino a qualche settimana fa. L’eredità che Innocenzo Cipolletta e Mauro Moretti, rispettivamente neo presidente e neo amministratore delegato delle Ferrovie si ritrovano dalla gestione dell’uscente Elio Catania è pesante. E si farà sentire sulla Finanziaria per il 2007, visto che la manovra targata Padoa-Schioppa dovrà farsi carico, almeno in parte, di questo dissesto. Il passivo - come confermano fonti di governo - va in realtà scorporato fra le due grandi aziende che stanno sotto il cappello della holding Fs: Trenitalia - la società di gestione del servizio - e Rfi, Rete ferroviaria italiana. La prima fin qui governata da Roberto Testore (e ora in attesa di un successore), la seconda dal neo amministratore del gruppo Moretti. La voragine nei conti è infatti da attribuire in gran parte alla prima: 1,3-1,4 miliardi a fronte di 300-400 milioni per Rfi. Che le Fs fossero rimaste a corto di fondi nel governo lo si sapeva da tempo. A luglio, per evitare il blocco dei cantieri Tav, il ministro dell’Economia fu costretto a rinunciare a gran parte dei tagli alla spesa e a stanziare per l’Alta velocità un miliardo e duecento milioni di euro. Meno prevedibile invece che i bilanci, soprattutto quelli di Trenitalia, fossero così negativi.
I tempi dei bilanci in attivo, o meglio dei passivi nascosti fra le pieghe delle cessioni di immobili e dei trasferimenti dello Stato, sembrano lontanissimi. Gli anni (il biennio è il 2002-2003) nei quali l’allora numero uno Giancarlo Cimoli si apprestava a lasciare il timone delle Ferrovie vantando l’uscita (agevolata) di trentamila dipendenti. Le ragioni del dissesto di oggi sono molte, e per certi versi non tutte riconducibili alla sola gestione Catania liquidato dopo una lunga trattativa con sette milioni di euro. Una di queste è l’ultima Finanziaria: 450 milioni di mancati trasferimenti. Un’altra sono i mancati aumenti delle tariffe. Una decisione che Catania avrebbe potuto prendere autonomamente (lo prevede un decreto firmato nel 2001 dall’allora ministro Bersani) e mancata per l’ostilità dell’azionista Tesoro e dei ministri di allora: Siniscalco e Tremonti. Catania ha poi dovuto rinunciare anche a molti trucchi contabili nati sin dalla gestione Dematté. Come i fondi «per gli extracosti del monopolista» o quello «per la ristrutturazione», quest’ultimo alimentato dallo smobilizzo degli immobili cartolarizzati, cioè il cui valore è stato trasformato in titoli di debito. «Tutti artifici che per un motivo o per un altro sono venuti a mancare», spiega il senatore diesse Paolo Brutti. Eppure la cura dimagrante alle infrastrutture e ai mezzi nell’ultimo quiniquennio non è mancata. Le Ferrovie continuano a perdere nonostante siano diminuite le linee elettrificate, le locomotive e le carrozze. I vagoni a disposizione dei passeggeri sono scesi da 10.437 ai 8.658 contati all’inizio della gestione Catania. L’unico risultato è il calo della qualità del servizio. Ancora non c’è stata l’attesa gara d’appalto per i nuovi treni (sia per le linee regionali che per alta velocità) mentre il numero dei passeggeri è rimasto invariato: più o meno dieci milioni di persone all’anno. È letteralmente crollato il settore cargo (-10% solo l’anno scorso) ed è mancata una cura da cavallo sul costo del lavoro. Almeno ai piani alti della società. I dipendenti sono diminuiti (da 106 mila del 2000 sono scesi a 97mila), mentre è salito il numero dei dirigenti: da 892 di cinque anni fa si è passato agli oltre 1.200 dell’anno scorso. Ciascuno di loro, secondo Brutti, costa alle casse della holding almeno trecentomila euro l’anno. «Basta mettere insieme stipendi, benefit e segretarie». Eppure vent’anni fa, ai tempi della trasformazione delle Fs in ente pubblico e della presidenza Ligato, i dirigenti erano 865. I dipendenti 216 mila.

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