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Data di pubblicazione:15/11/2006
Fonte:La Stampa
Titolo dell’articolo:I pendolari sono costretti a quotidiane odissee, schiacciati in poco spazio e abbandonati a se stessi
Testo dell’articolo:Basta andare su un treno, per capire che Paese siamo. Un posto che conserva male la sua memoria, che non riconosce nel passato un luogo da cui viaggiare verso il futuro. Non è un caso che proprio nel giorno in cui da noi esplode il dramma delle nostre ferrovie, in Inghilterra annunciano che tra un anno esatto Londra e Parigi disteranno solo due ore di corsa sui binari, passando nel tunnel sotto la Manica, e che nascerà una nuova stazione modernissima, quella di St. Pancras, un po’ più a Nord di Waterloo. Basta salire su un treno, da noi, per capire dove andiamo, ammassati dentro a convogli cigolanti che vengono da quarant’anni fa, dal Paese del boom, come se tutto quello che è successo dopo non fosse servito a niente e non contasse niente per i viaggiatori delle ferrovie, quella umanità variegata iscritta idealmente alla stessa sventurata appartenenza. Come l’ultima volta che siamo saliti su un Intercity per andare a Roma, dentro a carrozze che puzzavano di polvere e con uno dei due bagni che non aveva l’acqua, stretti fra i sobbalzi del viaggio, come se venissimo da lontano, da un’altra epoca. Quest’estate sull’Eurostar da Parigi a Londra ci sembrava di essere su un’astronave che toglieva il tempo alla nostra corsa. Ma siamo così lontani dall’Europa? Anche il paesaggio che fugge veloce dai finestrini diventa diverso, sporcato su un nostro treno dalla nostra ansia, dal nostro disagio, dai rumori e dagli odori, schiacciati fra la folla. Sulla Torino-Savona qualche tempo fa c’era un treno che continuava a deragliare. Da Torino a Milano, quando va benissimo, il ritardo è di venti minuti. Poi, abbiamo trovato le pulci e le zecche sulla carrozza numero 5 dell’Intercity 768 Reggio Calabria-Torino, appena un anno fa, e poi di nuovo sul Palermo-Torino. Quest’estate quando siamo tornati su quel treno, le carrozze erano state pulite. Ma non erano state cambiate. E nonostante i soldi e i miliardi per l’acquisto di nuovi convogli, i 10.347 mezzi passeggeri in servizio in Italia (locomotori e carrozze) restano tra i più vetusti e inefficienti d’’Europa. Il ritardo medio della Transitaliana è di 76 minuti. L’indice di puntualità bassissimo, del 39 per cento. La Freccia del Sud, a dispetto del nome, quest’anno a luglio è arrivata in ritardo 24 volte. E sono passati vent’anni, anche trenta e di più, e le stazioni sono sempre quelle, con gli Eurostar che filano e le tradotte per i pendolari che si incagliano esausti fra i marciapiedi come se non riuscissero più ad andare avanti, come a Vignate, vicino a Milano, direzione Venezia, dove l’anno scorso scoppiò la rivolta dopo l’ultimo ritardo e i viaggiatori occuparono la linea per protesta, con il vicesindaco Marco Bertolini in testa. Il primo cittadino, Virgilio Pedrazzi, inseguiva i giornalisti e urlava che «il servizio è sempre più scadente e i biglietti invece continuano ad aumentare». Questi convogli che attraversano il Paese tracciando tutta la sua arretratezza hanno ancora nomi leggendari come il Settebello o la Freccia del Sud, treni carichi di memorie che hanno narrato i nostri signori e la grande emigrazione, cantata perfino da Umberto Tozzi: «Ripensando alla Freccia del Sud/ E profumavano le arance, la Freccia del Sud/ Ma le tue guance di più...». Ora le tradotte che cigolano di notte lungo l’Italia sono quasi sempre infernali, teatri di commerci e turpitudini, frequentate da passeggeri ai quali non sempre i poliziotti hanno il fegato di chiedere i documenti. Persino «Caffé Express», quel bellissimo film di Nanni Loi con Nino Manfredi, che raccontava la storia di un disgraziato costretto a campare vendendo di nascosto il caffelatte sul treno per Napoli fra ladri e rapinatori, sembra per assurdo evocare un mondo più pulito, meno pericoloso, dove i convogli avevano una loro puntualità, e persino un loro ordine. Quest’estate, sull’Eurostar Parigi-Londra, eravamo tutti signori che lavoravamo con il computer piazzato sul tavolino, guardando sfrecciare le pianure della Normandia. Pochi giorni prima, eravamo andati su un treno a Messina e a un certo punto arrivando sullo stretto siamo
diventati ombre dentro la pancia di un traghetto. Ci avevano spento tutto. Prima, l’aria condizionata, poi pure la luce. Faceva molto caldo. Ma per salire all’aria aperta, bisognava abbandonare le valigie. E allora le gente restava nei vagoni, un esercito delle ombre.
È questa umanità sconfitta che attraversa il nostro paese anche per piccoli pezzi, dentro a un treno che è rimasto fermo nella sua memoria rovinata dal tempo. E basta andare a una qualunque stazione per capire che il nostro viaggio è lontano dall’Europa. Su Internet ci è capitato di leggere una signora che si descriveva così, con un po’ di poesia: «Andare e tornare, ci accomuna ogni giorno, ma essere pendolari però non è solo questo. Non si tratta solo di percorrere un tragitto. Sono le persone e le cose che incontri che fanno di quel tragitto un viaggio non solo fisico. Pendolare nel corpo e nella mente, è una condizione di vita». È quella condizione che abbiamo sconfitto, nell’epoca delle grandi comunicazioni. Il viaggiatore chiuso nel suo passato, fra la polvere e le pulci.

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